5 ago 2018

RIFLESSIONI SULLA DANZA CONTEMPORANEA


Reduce da un deludente spettacolo dell'Estate Sforzesca, mettendo a posto alcuni scaffali mi capitano tra le mani vecchi programmi di spettacoli di danza contemporanea. Ecco che subito scatta l'amarcord e la nostalgia degli anni novanta, quando le rassegne internazionali di teatri milanesi come il Piccolo, nell'allora sede del teatro Lirico (che pare riapra a settembre dopo 20 anni), e il teatro Carcano ospitavano compagnie importanti.
Allora, grazie ad abbonamenti speciali per studenti, potevo vedere spettacoli di livello a costi contenuti.
Con gli occhi di una giovane appassionata di storia della danza, mi sono nutrita delle coreografie dei grandi nomi che leggevo sui libri acquistati alla Libreria dello Spettacolo di Via Terraggio. Mats Ek, Twyla Tharp, Bill T.Jones, Maguy Marin, per citarne alcuni. Persino in trasferta cercavo la danza. Ricordo, manco avessi visto la Madonna, la commozione nel vedere Pina Bausch uscire a prendere gli applausi, al termine dello spettacolo della sua compagnia, al Carlo Felice di Genova. E che emozione davanti alle cooreografie storiche di Martha Graham, su un palco all'aperto di un'estate romana, eseguite dalla compagnia che ancora oggi prende il suo nome! Persino nei viaggi all'estero preferivo uno spettacolo di danza a qualsiasi altra cosa.
Il Teatro Smeraldo, poi, oggi sede di Eataly (dove anche allora andavo a nutrirmi, ma in senso metaforico) ospitava compagnie americane di richiamo, che seguivano un filone di danza più acrobatica, costruita sulle capacità atletiche dei ballerini. Mi riferisco ai Pilobolus e ai Momix di Moses Pendleton; alla Compagnia di David Parsons, atletico danzatore reso famoso al grande pubblico per "Caught", un gioco di perfetta sincronia tra movimento e luci che dava l'illusione di vederlo volare; a Daniel Ezralow, che in Italia ha proseguito la sua fortuna (ahimé) alla televisione (dal Festival di Sanremo a X Factor).
Gli anni novanta, dunque, offrono un panorama molto vasto, dall'espressione più teatrale del movimento, alla danza acrobatica, che raggiunge il suo apice nel nuovo millennio, con le prime tournée in Italia degli spettacoli del Cirque du Soleil, in cui è l'acrobata circense a volersi avvicinare alla danza. Quanto alla danza contemporanea, il nuovo millennio non sembra aver portato granché, e Milano offre poco (a parte il fenomeno Bolle, che ha acceso un improvviso interesse per l'arte coreutica). Sulla scena, arricchitasi di effetti luce e video, danzatori mostruosamente perfetti da un punto di vista tecnico (e ciò penalizza ancora di più chi non lo è) sbatacchiano di qua e di là, come fantocci di gomma svuotati del loro interno vivo e pulsante. Corpi che entrano in contatto senza creare connessioni, come privi di emozioni. Corpi snodati e asessuati, spesso impermeabili alla musica, che si muovono stimolati da non si sa cosa, a volte accompagnati da assordanti e monotone pulsazioni simili a quelle che rimbombano nelle discoteche. Delle coreografie del tanto osannato Akram Khan, viste all'Arcimboldi qualche anno fa, ricordo soltanto la preparazione atletica dei suoi ballerini, il resto non ha lasciato nulla.
Forse la danza contemporanea non ha più molto da dire o, più probabilmente, essa è, ancora una volta, esattamente lo specchio del suo tempo: un bellissimo contenitore, alla ricerca della perfezione esteriore, ma sempre più vuoto al suo interno.
In questo contesto, vorrei spezzare una lancia in favore della storica compagnia emiliana Aterballetto, che dalla fine degli anni settanta ha saputo rinnovarsi continuamente, dando spazio anche a giovani coreografi. Un paio di anni fa sono stata piacevolmente colpita da un giovane danzatore e coreografo tedesco, Philippe Kratz, la cui vitalità nei movimenti mi ha fatto di nuovo emozionare di fronte a un balletto. Allora forse non tutto è perduto.

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