"Che cosa accadrebbe se, invece di limitarci a costruire la nostra esistenza, avessimo la follia o la saggezza di danzarla?"
Inizia con questo interrogativo il testo del filosofo francese Roger Garaudy, scritto nel 1973, che si apre con un meraviglioso capitolo sul significato della
danza come modo di esistere.
Questo libro, di poco meno di duecento pagine, introdotto sapientemente da Bejart, sta su uno scaffale della mia libreria da una ventina d'anni. Acquistato negli anni universitari nella mitica Libreria dello Spettacolo, allora meta fissa, di quando collezionavo volumi sulla danza con la stessa smania di cpmletare un album di figurine.
Riscoperto negli anni di formazione come danzaterapeuta, all'interno della bibliografia essenziale, è stato per me oggetto di studio.
Rileggerlo ora, libera dal dover memorizzare nomi e principi, ha acquisito un senso più ampio.
Emerge non soltanto un prezioso testo di storia della danza ma un'analisi del contesto politico e sociale nel quale l'arte coreutica ha vissuto per secoli, attraversando momenti importanti, in epoche diverse. In particolare la nascita della danza moderna, ponte tra le origini e - come scrive l'autore - "venti secoli di disprezzo del corpo da parte di un cristianesimo pervertito dal dualismo platonico".
Fino all'ultimo capitolo, Garaudy esprime la necessità di una partecipazione reale della danza alla creazione dell'uomo, realizzabile attraverso una cultura viva.
Il finale, in cui egli auspica una funzione sacra della danza come "messa per il tempo presente", ha il profumo degli scritti di Isadora Duncan.
Questo è senza dubbio uno scritto che emoziona.
"In ogni nostro gesto - scrive il filosofo - tutto il palpito del mondo e tutte le sue interazioni passano, si riflettono e si collegano (...) in un dialogo che muove dal fondo nel nostro essere e dal tutto (...) che respira col nostro fiato e pulsa col nostro sangue".
Assolutamente da leggere. E rileggere. E rileggere.
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